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PAESE CHE VAI CENSURA CHE TROVI
08/09/2009
Enrico Caria, Antonio Falduto e Gianfranco Giagni quando hanno pensato all’organizzazione dell’incontro tenuto alla Villa degli Autori sulla “Censura degli altri”, non potevano prevedere di avere un ospite così sensibile al problema. E forse nemmeno Bobby Paunescu regista rumeno di Francesca avrebbe pensato di diventare uno degli “osservati” speciali dell’incontro. Il film che ha aperto la sezione Orizzonti, come ormai sanno tutti è stato ritirato dal Circuito Cinema Comunali di Venezia, in seguito alla querela dell’onorevole Alessandra Mussolini e del Sindaco di Verona, Flavio Tosi. Libero di creare in Romania, nell’occhio del ciclone in Italia per un film che parla della crisi di identità del suo paese e che come ha sottolineato il regista è “stato attaccato da persone che il film non l’hanno neanche visto”. Questo caso unito ai trailer non trasmessi da Rai e Mediaset di Videocracy di Erik Gandini hanno reso ancor più di stringente attualità il tema.

Preceduto da un documento letto da Enrico Caria, il dibattito è iniziato con testimonianze sulla censura in altri paesi per poi progressivamente slittare verso la situazione italiana. L’iraniano Nader T. Homayoun, regista alla SIC di Tehroun (Tehran), i due registi delle Giornate degli Autori Goran Paskaljevic (Honeymoons) e Merzak Allouache (Harragas), a parlare della situazione serba e algerina, e il già menzionato Bobby Paunescu per la Romania, hanno tracciato un profilo dei loro paesi che per storia politica e tradizioni culturali hanno dei punti in comune. I repentini cambiamenti politici, le rivoluzioni, il separatismo hanno dato luogo nel corso di questi ultimi decenni a forme di censura più o meno visibili. Il dato emerso dalla testimonianza dei quattro registi è appunto la non ufficialità della censura che si esprime non in forma diretta ma ad esempio attraverso la mancanza di vere e proprie strutture pubbliche, risorse economiche e produttive che, di fatto, pongono uno sbarramento sin dall’inizio alla creatività e alla libertà d’espressione. Un clima di intimidazione di cui sono vittime soprattutto i giovani registi che per esordire devono sottoporsi a una preventiva autocensura.

Quello che in sostanza ha paventato per l’Italia il produttore Andrea Occhipinti (che ha ricordato i casi precedenti di Totò che visse due volte e la difficoltà a produrre Il divo) e lo sceneggiatore Roberto Tiraboschi, con la nota questione del taglio dei finanziamenti pubblici alla cultura, il restringimento delle realtà distributive e produttive e il dominio espresso dalle televisioni. Divisi tra censure dall’esterno e autocensure preventive, gli autori non possono dare rappresentazione dei lati oscuri della società contemporanea.

Un problema che non riguarda solo i registi ma anche i critici, costretti a lavorare in modo precario e quindi sempre sotto scacco, come ha ricordato al termine dell’incontro il critico russo Andrej Plakow, presidente del FIPRESCI.


Il documento letto da Enrico Caria
Quando abbiamo deciso di organizzare questo incontro sulla libertà d’espressione si pensava alla vita travagliata, in Italia come in tutto il mondo, delle opere che scandalizzano, denunciano e creano disagio, che irritano il potere e disturbano i benpensanti.
Insomma quei film senza i quali, alla storia del cinema, mancherebbe un pezzo d’eccezionale importanza, per i contenuti e per il linguaggio.
Il tema ci sembrava sì attuale, ma non credevamo tanto attuale: in queste ultime settimane infatti, le cose qui da noi hanno subito un’imprevista accelerazione verso il peggio, e possiamo ben dire che un serio problema di censura ed autocensura, oggi in Italia c’è, e riguarda non solo le opere più estreme ed antagoniste.
Istituzionalmente non viviamo certo in un paese autoritario o teocratico, la nostra è piuttosto una “censura all’italiana” in primo luogo economica: parliamo del controllo delle risorse, della mancanza di un libero mercato, dei monopoli produttivi e distributivi che uccidono nella culla tante opere indipendenti ed innovative.
E se è vero che in tutto il mondo il potere politico vuole il controllo sulla rappresentazione della realtà, è sotto gli occhi di tutti che nel nostro paese un presidente del consiglio possiede direttamente la metà dei mercati televisivi e cinematografici e ne controlla l’altra metà.
E come se non bastasse il suo governio azzera ora ogni sostegno allo spettacolo, e non legifera per restituire le risorse che ogni giorno vengono saccheggiate da networks e providers che utilizzano contenuti di cui non pagano diritti.
Non siamo ai manganelli e all’olio di ricino ma nel nostro sistema produttivo-distributivo di fatto monopolistico, per relizzare un film la prima selezione è proprio quella delle antenne televisive senza le quali è impossibile accedere a quel che resta dei contributi statali.
Col risultato che a condizionare l’intera (o quasi) produzione nazionale sono quei funzionari televisivi il cui mestiere è di promuovere i progetti meno rischiosi e più telecompatibili.
Nei grandi numeri il trend di un’omologazione culturale tendente al basso è un dato oggettivo e solo di rado dal cilindro spuntano ancora fuori nuovi autori originali spinti da produttori indipendenti… ma ancora per quanto?


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