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#7 LA POESIA DELLA PROSA
07/09/2006
Il film di Jean-Pascal Hattu è davvero francese nel modo in cui tratta il suo soggetto, con una sobrietà (nei dialoghi, molto quotidiani, o nella luce molto naturale) che è stata apprezzata dal pubblico di Venice Days; è infatti una vera prodezza riuscire a rendere il dolore di una coppia separata dal muro di una prigione evitando il melodramma. La descrizione della vita carceraria fuori dalle mura del carcere attraverso Maïté, moglie di un detenuto, riflette inoltre, nella sua grande obiettività, il fatto che i protagonisti accettino la situazione senza autocommiserarsi.

7 ans è una finestra trasparente, senza filtri, su un rituale che fa ormai parte della vita di Maïté (le visite al parlatorio, il bucato che le permette di annusare l'odore del marito Vincent e di spruzzare, a sua volta, un po' del suo profumo sui vestiti che gli riporterà in prigione). Questa routine è tuttavia scompaginata quando Vincent, diventato totalmente dipendente da sua moglie, escogita un sorprendente sistema per riprendere il controllo della situazione individuando, nella persona di Jean - una guardia carceraria - un amante per lei.

Tuttavia, quello che si presenta come un triangolo amoroso è in realtà un gioco a due, poiché Jean è totalmente defilato. Come il registratore che lui trasporta da dentro e fuori la prigione, Jean non è che un vettore il cui ruolo è quello di salvaguardare la simmetria perfetta di questo amore lacerato (e, proprio come i vestiti -solo due per volta- che Maïté è autorizzata a portare durante le visite, le coppie conducono un gioco a due). Quello che sarebbe potuto essere oggetto di un documentario diviene così una storia d'amore in cui l'assolutezza è infinitamente poetica, come anche gli ingegnosi dettagli inventati da Hattu tra cui la presenza di Julien un ragazzino incredibilmente maturo che percepisce i bisogni carnali di Maïté ed è il piccolo testimone del suo adulterio.

Come le è venuta l’idea di combinare un approccio tanto realistico con una storia d’amore così assoluto, e perciò quasi surreale?
Nel corso di alcune ricerche per realizzare un documentario sulle guardie carcerarie, ho avuto l’opportunità di parlare ad alcuni detenuti e in particolar modo con le loro mogli, ascoltandone i racconti su come affrontino il problema della totale mancanza di intimità, che mi hanno profondamente turbato. Hanno affermato più volte di annusare quasi in maniera rituale i vestiti dei mariti prima di lavarli, di nascondersi sotto una coltre di cappotti, come degli adolescenti, per baciare i compagni detenuti... Una donna mi ha persino raccontato di utilizzare dei binocoli per osservare da lontano la finestra della cella del marito. Le condizioni difficili imposte dalla situazione in cui vivono in realtà non fanno che aumentare la loro passione.

Maïté è un personaggio straordinariamente forte, probabilmente il più forte di tutti...
Sì, è senz’altro lei che manda avanti la famiglia ed è sempre lei che, alla fine, trae il massimo da questo bizzarro “triangolo amoroso” (perché Jean è solo uno strumento — e infatti in prigione le guardie si auto-definiscono “porta-chiavi"— e Vincent perde il controllo della situazione). Maïté è una donna determinata che vuole tutto, vuole riuscire a ravvivare ogni giorno l’amore del marito, ma anche dare libero sfogo alla propria curiosità nei confronti di Jean, che riesce persino a giustificare a posteriori.

Quali sono i suoi registi preferiti?
Quelli che mi hanno fatto venire voglia di fare film sono Bresson, Bergman e i neorealisti italiani (adoro Stromboli di Rossellini). Tra i cineasti più “recenti”, mi piacciono particolarmente Pialat, Téchiné e Chabrol.

Bénédicte Prot (Cineuropa)


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