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#2 KHADAK: OGNI COSA E' ILLUMINATA ...
E LA VILLA DEGLI AUTORI SI COLORA DI AZZURRO

04/09/2006
Come sottolineato da film recenti, il destino della Mongolia è spesso associato a quello dei suoi animali. In Khadak, una finta epidemia che infetta il bestiame permette alle compagnie minerarie di strappare i pastori nomadi dalle loro tradizioni per poi spostarli nelle miniere. Tutto ciò che rimane del passato (descritto dal nonno) è un fantasma, interiorizzato dal giovane personaggio, Bagi, tramite il suo ‘dono’– quasi che la steppa fosse ora ‘dentro di lui', come suggerisce la scena della guarigione sciamanica– ma anche dal film stesso, immerso in un’atmosfera fiabesca sin dall’inizio, quando la voce della madre dice “c’era un tempo in cui...” —un tempo senza peccati— c'erano tante mele per tutti.

Khadak ci porta "attraverso lo specchio", come se l’universo etereo nel quale la donna sciamano vive sia l’unica via di fuga da questo mondo moderno anti-naturale in cui tutto e tutti devono essere "riformati" — così, Bagi vaga di istituto in istituto, dalla miniera alla prigione, passando per l’ospedale.
C'è qualcosa di sbagliato, grida varie volte una protagonista, la speranza è svanita ("Adesso, qui, non vuole dire niente") e non resta che aspettare la morte... o l’epifania —e questa è la ragione per cui Bagi, alla fine, si rassegna al suo destino e accetta, attraverso la morte, la transustanziazione che gli permette di tornare sotto forma di una luce di speranza.

Nonostante l’apparente tristezza del film, non soltanto la malizia del nonno ma soprattutto il trattamento estetico del plot danno l’impressione che ogni cosa sia, invero, illuminata. E, alla fine del film, il ricordo della bella fotografia continua a vivere in noi, dall’immagine del cavallo morto nel maneggio e da quella di Bagi che piange su un mucchio di carbone (che rappresenta le rovine di un mondo ormai estinto) ai tableaux vivants in stile Canaletto e alle sciarpe-talismani blu (i "khadak") che danzano nel vento.
Le stesse sciarpe che hanno colorato la Villa degli Autori giovedi' sera...

Questo film è veramente un prisma di realtà diverse...
Jessica: Nel film ci sono tre generazioni, e vedono le cose in maniera differente. Il nonno ricorda il tempo in cui erano le tradizioni a prevalere, la madre è nata nel periodo comunista e Bagi ha ereditato il suo ‘sesto senso’ dal padre, una cosa che la madre e i medici vedono come una maledizione ma che è, di fatto, come dice il nonno, un vero dono: quando Bagi comunica, nell’anima, con la nuova amica Zolzaya, l’aiuta a svegliarsi e a scuotere via l’apatia.

Verso la fine, la narrazione si ferma, o meglio, si risolve in una sinfonia onirica. Sapevate dall’inizio che il film si sarebbe chiuso in questo modo?
Peter: Sì, volevamo innalzarci sopra la narrazione, per ottenere quello che riteniamo sia sublime.
Jessica: Sebbene questa parte— che inizia quando Bagi è sott’acqua e avviene la sua trasformazione, guidata dalla donna sciamano — non sia più guidata dal plot, questa successione di immagini non potrebbe essere più lineare. Quando Bagi va in paradiso, come suggerisce la caduta dei khadak— che non servono solo come talismani, ma rappresentano molte cose (il cielo, il giudizio divino sull’uomo...) — provoca un miracolo e ogni immagine è una specifica fase di questo processo.

Come avete trovato un direttore della fotografia che vi permettesse di dare libero sfogo alla creatività?
Jessica: Abbiamo visto tre collaborazioni di questo direttore della fotografia lituano nei film di Sharunas Bartas. Sapevamo che Rimvydas Leipus aveva delle idee forti sulla composizione e pensavamo che ci avrebbe supportato a sottolineare le nostre scelte riguardo, per esempio, il passare del tempo — volevamo che alcune riprese durassero per permettere allo spettatore di percepirle diversamente, all’inizio e alla fine. Devo dire che, per trovare finanziamenti, abbiamo dovuto preparare uno script di facciata, più lungo, con molte riprese tagliate dopo.


Khadak Interview        Khadak Interview