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ELKABETZ E YOUSSEF: UN DIALOGO 08/09/2011
Gli appuntamenti dei 27 giovani europei con i personaggi del mondo del cinema si concludono con un incontro straordinario, dal titolo “Stranger in your country: the fear of the other”, che ha visto protagonisti i due giovani registi Shlomi Elkabetz e Susan Youssef, autori rispettivamente dei film Edut e Habibi, entrambi presenti nella selezione ufficiale delle Giornate degli autori.
L’eccezionalità dell’occasione risiede nel fatto che i due filmaker siano uno di nazionalità israeliana e l’altra palestinese, rappresentanti, dunque, di due popoli impegnati da oltre mezzo secolo in una lotta che insanguina il territorio della striscia di Gaza e le zone circostanti. Ciò che è stato detto durante l’incontro con i rappresentanti del parlamento europeo a proposito di un ruolo sociale e attivo del cinema, prende forma concreta in questo incontro; i due film, diversi tra loro ma ugualmente interessanti, sono diventati l’occasione per un confronto sul tema fondamentale dell’alterità.
A proposito della propria doppia nazionalità, la Youssef dice: «sono nata negli Stati Uniti, ma dai vent’anni in poi ho lavorato in medio oriente, specialmente in Palestina. Sono stata a Gaza per tre anni, ho imparato molto su differenti stili di vita; è stata un’esperienza speciale per me».
Mentre Elkabetz, riferendosi al melting pot dei ventisette ragazzi, afferma: «venite da 27 paesi differenti e la vostra identità è definita dalle differenze tra voi, in particolar modo dalla lingua», e prosegue, in riferimento ad Habibi: «ciò che è interessante nel film di Susan è che i personaggi non sono definiti da un punto di vista politico; lei usa la mitologia dell’altro ma in riferimento al fatto che la protagonista è una donna scissa dal proprio compagno e, in alcune decisioni, anche da se stessa. L’alterità non è mai, dunque, utilizzata per effettuare distinzioni tra occupanti e non occupanti». La Youssef ammette, infatti, la volontà di arrivare a dire ciò che sente in modo indiretto, senza il pressapochismo di un giudizio netto: «Non volevo mostrare direttamente la crudeltà di Hamas; ho cercato di spiegare cosa significa vivere con queste tensioni raccontando l’esperienza della vita quotidiana a Gaza».
Habibi, più che un film di protesta si configura come una storia d’amore tra due giovani, i cui progetti sono contrastati da una società che impone le proprie scelte spacciandole come le uniche possibili. Se la Youssef, con questa sua prima opera la cui creazione ha richiesto ben sette anni di tempo, guarda il mondo dalla prospettiva dei due giovani protagonisti, Elkabetz in Edut unisce le esperienze israeliane a quelle palestinesi, in un complesso gioco di specchi che mescola le identità; gli attori del suo cast, infatti, recitano delle testimonianze autentiche, per lo più di palestinesi, ma nella lingua dei loro oppressori, l’ebraico. Il film, racconta il regista, ha ricevuto una doppia accoglienza: «Il ministro della cultura non ha apprezzato il film, definendolo pieno di bugie e privo del dolore degli israeliani. Dall’altro lato, abbiamo avuto un sacco di reazioni positive da persone che aspettavano un lavoro del genere da anni». «So che questo film mi procurerà qualche guaio - ammette anche la Youssef -, ma io sono ottimista, ho fiducia nel meglio della natura umana. Le persone che ho incontrato lungo il cammino di Habibi si sono dimostrate tutte poco interessante alla politica, molto generose e molto eccitate di collaborare al film».
La strada del dialogo è senz’altro lunga e irta di ostacoli; attraverso il cinema, tuttavia, questi due giovani registi sono riusciti a costruire un ponte di comunicazione tra di loro e con gli spettatori. Mettendo da parte le questioni politiche, lasciate sullo sfondo, Susan Youssef e Shlomi Elkabetz hanno dialogato con le sensibilità di coloro che questa guerra non l’hanno mai voluta, incrinando il muro del silenzio e gettando le basi per un coraggioso e produttivo dialogo tra le nuove generazioni, di qualsiasi nazionalità esse siano. Francesco Bonerba
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